giovedì 4 dicembre 2014

LA RIVOLUZIONE GENOVESE DEL 1746


Alla fine dell’estate 1746 Genova è costretta a cedere di fronte alla pressione degli eserciti austrosardi. La vecchia repubblica oligarchica si era decisa a entrare in guerra a fianco delle potenze borboniche (Spagna e Francia) - si tratta della guerra di successione austriaca - per contrastare in qualche modo le mire espansionistiche di Carlo Emanuele III di Savoia su Savona e Finale. Ma le sue energie erano scarse, e più scarse ancora erano quelle del ristretto gruppo oligarchico al potere, per di pm diviso in un’ala interventista e un’ala neutralista e filo-austriaca.
Le pesanti riparazioni imposte dagli austriaci spezzano il delicato equilibrio economico della repubblica, provocando inflazione e disoccupazione. Per alcune settimane un sordo malcontento serpeggia per la città, fino a che, il 5 dicembre 1746, un banale incidente da fuoco alle polveri: nel sestiere Portoria un gruppo di ragazzi risponde a sassate alle prepotenze di un ufficiale austriaco (episodio del “Balilla”).
Tra il 5 e il 10 dicembre si verificano scontri, disordinati e spontanei, fra austriaci e popolani, in un crescendo sempre più drammatico che il 10 sfocia in una vera e propria insurrezione generale. Chi sostiene inizialmente tatto il peso degli scontri e la "feccia più vile di Genova", come commenterà un anonimo aristocratico qualche tempo dopo: " garzon di tavernari, pattumai, ciabattini, fognai, facchini da carbone e da vino ", e infine "pescivendoli ".
Alla fine gli austriaci sono costretti ad abbandonare la città.
Il movimento insurrezionale si e dato un’embrionale struttura politico-militare nel corso della lotta stessa: gli uomini che hanno di fatto diretto le operazioni militari - Tommaso Assereto, Carlo Bava, Camillo Fiorentini - danno vita a un "Quartier generale de’ capi del popolo difensori della libertà ", la cui sede è fissata in via Balbi. A partire da questo momento a Genova si instaura una sorta di dualismo di potere, una direzione bicefala: il potere popolare, che trova una prima espressione nel quartier generale di via Balbi, e i serenissimi collegi - i tradizionali organismi di potere dell’oligarchia _ che hanno fatto da spettatori durante lo svilupparsi del movimento popolare.
L’atteggiamento dell’aristocrazia di fronte all’insurrezione non è unilineare. A parte un’esigua minoranza di nobili che si integra nel movimento - i << nobili popolari » la stragrande maggioranza dell'oligarchia intende da una approfittare degli avvenimenti in funzione anti-austriaca, dall’altra teme, per istinto di classe un possibile sbocco eversivo della dinamica degli avvenimenti. Il << magnifico » Matteo Franzone riassume efficacemente la situazione: " siamo tra due flagelli " (austriaci e popolo).
In realtà, la rivoluzione popolare, spontanea e disordinata nel suo sviluppo, non ha un preciso
programma politico ed economico, ed è destinata a essere recuperata dall'aristocrazia. Il 17 dicembre un’assemblea popolare si da un organismo direttivo: l’assemblea del popolo, composta di trentasei membri (dodici capipopolo, dodici rappresentanti delle Arti; dodici rappresentanti "dell’ordine più civile", cioè della nobiltà e dell'alta borghesia).
I primi provvedimenti dell’assemblea del popolo sono diretti a cercare di incanalare il movimento spontaneo, sforzandosi di mantenerlo entro gli orizzonti della lotta anti-austriaca.
Una serie di concessioni in materia economica da parte dell’oligarchia facilitano il raggiungimento di questo obiettivo.





Il precario equilibrio raggiunto ai vertici dei potere da luogo, tra la fine di dicembre e i primi del gennaio 1747, a una serie di episodi drammatici in cui si hanno gli ultimi sussulti della spontaneità popolare. Progressivamente, i settori più moderati prendono il sopravvento sull'ala più radicale, e alcuni dei capi popolari più prestigiosi finiscono anche per essere incarcerati.
La svolta decisiva si verifica il 14 gennaio. Al diffondersi in città di una notizia (rivelatasi poi infondata) circa un attacco austriaco, il popolo si riversa sotto il Palazzo (sede del governo oligarchico), reclamando le armi. Il momento è drammatico. Le masse popolari disconoscono in
pratica l’assemblea del popolo e si sono date nuovi capi. Solo l’intervento in funzione moderatrice dell’ala più legata all’oligarchia riesce ad disinnescare la minaccia. Il popolo ottiene alcune
concessioni (come la liberazione di alcuni suoi esponenti arrestati in precedenza), ma nessuna reale conquista di carattere politico. E assisterà addirittura passivamente, più tardi, all' esecuzione di tre dei principali protagonisti della giornata del 14. Da questo momento in poi, il movimento popolare andrà sempre più declinando, sia pure con qualche residua fiammata. Le manovre dell’oligarchia (pienamente appoggiata dalla Francia), le esitazioni della sua direzione e l’assenza di un qualsiasi programma hanno progressivamente esaurito e svuotato la rivoluzione genovese.




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